| La casa la conoscevo bene: ci ero passato davanti talmente tante volte, da bambino e poi da ragazzino, che la guardavo senza vederla, ormai. Non l'avevo mai vista abitata, però: mia madre mi aveva raccontato di una certa famiglia di origine torinese, che stava lì quando lei si era trasferita in città subito dopo il matrimonio, ma anche lei non riusciva a ricordare da quanti anni la villetta fosse rimasta sfitta, o invenduta. Con il tempo, i colori originali dell'intonaco se n'erano belli e che andati, e la casa, in fondo al breve vialetto pustoloso di erbacce, era parsa man mano sbiadirsi, perdere consistenza contro lo sfondo compatto della vegetazione inselvatichita. L'inferriata del giardino, invece, era sempre rimasta uguale. Di ferro nero, massiccio, e decisamente inquietante, correva lungo il marciapiede partendo da un muretto basso di mattoni a vista, talmente basso che già in terza elementare, ricordo, potevo sbirciare dentro senza dovermi alzare sulle punte dei piedi. Non che ci fosse niente da vedere: un intrico di robinia e caprifogli trapuntava le sbarre massicce, e, d'estate, le foglie tremolanti e i fiori pallidi pendevano come festoni fin sul marciapiede, sfiorandoti la faccia. Buttare un'occhiata dentro il giardino disabitato, e poi raccontarci a vicenda chissacchè, era stato uno dei nostri sport preferiti per tutte le elementari, mio e di Tonino e Marco, intendo. Ci vedo ancora, io e Marco sempre due passi avanti e Tonino dietro, spintonarci a vicenda per tutto il tragitto da casa a scuola, sghignazzando e trascinando le scarpe fino a scorticarle totalmente in punta. Ci vedo arrivare davanti alla villa e zittirci, ogni volta, lanciando uno sguardo nervoso oltre il muro verde dei rampicanti e tirando il collo per guardare in cima all'inferriata, le prodigiose punte con cui terminavano le sbarre, unite l'una all'altra da un fregio complicato, di un nero lucido, oleoso. Ci rivedo la sera in cui, preceduto da un inquietante tramestìo di foglie, ci era piombato addosso al galoppo, sgusciando come un missile fra le sbarre, il vecchio Rouille, il gatto della maestra Landolfi, irto come un puntaspilli e gonfio di rabbia o paura. Ricordo quel faccione peloso, tagliato dalla linea chiara dell'occhio perso chissà in quale battaglia, materializzarsi a un millimetro dalla mia faccia, e poi schivarmi in uno scarto violento, che mi aveva lasciato tremante e stordito. Non avevo potuto impedirmi di urlare, un urletto strozzato e debole, da poppante, e gli altri due mi ci avevano sfottuto per mesi, al ricordo. Ma io le avevo viste, le loro, di facce, quando era successo. E mica erano meglio della mia. Mi ero chiesto per un bel po' poi che cosa, animale o umano che fosse, aveva spaventato tanto quel cacchio di gatto, normalmente pestifero e attaccabrighe. Poi tutto mi era passato di mente. E mi ritornava alla memoria adesso, nel momento meno adatto del mondo. Nel momento in cui, mentre se ne stava avvinghiata come un rampicante al mio collo, stavo finalmente e vittoriosamente sbaciucchiando Donatella, L'Unica e la Sola Donatella Santi, cotta tradita di due terzi della classe, colei che a memoria d'uomo non l'aveva mai non dico data, ma nemmanco promessa a nessuno. Ancora non ci credevo che quattro battute idiote e due compiti di chimica passati potessero sortire tale risultato: già prima, al cinema, avevo faticato a convincermi che la sua mano, piccola e nervosa, stesse veramente toccando me, polso braccio collo guancia, e più tardi, cazzarola, decisamente la mia coscia, in uno sfioramento insistito e languido che mi aveva istantaneamente provocato un'erezione sulla fiducia. E poi, così, senza preavviso, mentre l'accompagnavo a casa, s'era fermata, nella luce/ombra di un lampione, s'era girata verso di me con un solo, liquido movimento del suo venerabile corpo sedicenne, e mi s'era incollata addosso, facendomi sbattere l'osso sacro contro un muretto di mattoni e risucchiandomi via di bocca ogni parola con la sua lingua morbida e bagnata. La testa mi si era riempita di vento, e la bocca di sapore di caramella di menta. Incredulo ma deciso, mi ero assestato sulle gambe, poggiandole una mano dietro la schiena, e tirandomela ancora più contro. Sentivo le sue dita sulla nuca, le sue labbra aprirsi, avvolgere le mie, la cerniera dei suoi calzoni strusciare, dolorosamente, contro il mio cazzo in tiro, da sotto in su e poi al ritorno, a ritmo con la sua lingua infilata fra i miei denti. Mi sentivo scoppiare di voglie opposte e illogiche, dirle che la amavo, guardarla negli occhi, che teneva chiusi, staccarla da me e pensarci su, scoparla, scoparla, scoparla fino allo sfinimento mio e suo. Cercando il fiato, avevo alzato la testa, sbattendo stavolta la zucca sulla cancellata rugginosa che mi stava alle spalle, e improvvisamente avevo realizzato dov'ero. Mi stavo spupazzando Donatella Santi contro la cancellata delle paure d'infanzia, degli scherzi e del gatto spiritato. Per un secondo, anziché il faccino angelico della Lella m'ero visto di fronte il muso infernale di Rouille, e avevo sussultato. Ma era stato, appunto, solo un momento. Sì perché lei, senza staccarsi di un millimetro dal mio bacino, che anzi aveva continuato a massaggiare lentissimamente con il suo, su, giù, destra sinistra e in circolo, tirandomi scemo, si era piegata all'indietro, e si era poggiata la mia mano destra fra i bottoni della camicetta, respirando a labbra aperte, gli occhi oscuri e lucidi che le splendevano fra le ciglia.
E scopro che non ha il reggiseno, cribbio, le mie dita sdrucciolano sulla sua pelle calda, slaccio, un'ombra di sudore fra le sue tette piccole ma gonfie, abbasso la testa e le bacio, le prendo rispettosamente in bocca, succhiandole appena, finché il cazzo di nuovo duro mi fa così male che mi devo spostare, così lei riabbassa la testa e cerca di nuovo con le labbra, gliele forzo con lingua, di nuovo sapore di menta e del suo fiato, ho la sua lingua e la sua saliva in bocca, sulla guancia, sul mento in un filo dolcissimo appiccicoso, so solo che la voglio. Lei alza di nuovo la testa. "Scavalchiamo. Entriamo qui che non c'è nessuno, dai." Mi scosto da lei, sentendomi ubriaco, e poi realizzo quello che mi ha proposto. Pomicio e forse sesso nel giardino dei misteri? Scavalcare la cancellata che non ho mai scalato manco nei miei sogni? Effettivamente, vista ora, la ringhiera pare molto meno alta di quand'ero bambino. Ci sono un paio di appigli comodi, ed arrivare nel giardino senza grossi danni sembra un'impresa fattibile. E poi nei suoi occhi e nella sua camicetta ci sono un sacco di promesse che ho una gran voglia di vederle mantenere. Però, però. Questa non è un'inferriata, è L'Inferriata, per me. E quello al di là mica è un giardino, no. Sono erbacce incubi e intrichi misteriosi di vegetali crudeli e succhiatori di sangue. Ma il mio, di sangue, fischietta un'altra melodia, al momento, sicché le porgo una mano e la faccio salire sul muretto, poi l'aiuto a scavalcare. Salendo, il suo corpo morbido mi struscia contro, spalla fianco ginocchio, le mie mani poggiano per un momento sul suo fantastico sedere, siamo tutti e due in piedi sul muretto basso, poi lei, svelta come una gatta, è già su e poi di là. Piccolo tonfo, attutito dall'erba alta, silenzio. Buio. Mi guardo attorno come un cretino, modello agente segreto, poi mi decido. Altra zuccata, sui rami questa volta. Odore di erba pestata, buio. Silenzio. "Lella?" bisbiglio. Niente. "Lella, mica ti sei fatta male? Dove sei, non vedo un tubo qui in mezzo!" Mi sforzo di guardare in mezzo ai rami e all'erba alta, che mi graffia gli avambracci, ma la luce del lampione, tagliata a fette dalle sbarre e soffocata dalle foglie è poco più di un lumino verdognolo e malsano. Distinguo a malapena la mia mano, e questa scema mi fa pure gli scherzi. Faccio qualche passo incerto, la mano destra a cercare la sicurezza del muretto. Spazzo foglie e calcinacci, secchi e caldi, e poi mi pungo con qualcosa. Continuo a camminare, succhiandomi un dito, chiamando. Macché. La luce quasi non filtra più, qui dove sono adesso. I capelli mi si appiccicano alla nuca di un sudore colloso, sgradevole. Mi sento perso, e mi pare di stare sott'acqua, un'acqua verde e melmosa, di faticare a respirare. Ma la mia mano incontra pelle morbida, e un fianco aguzzo "Lella, cazzo, che scherzi fai? Perché non mi rispondi?" Mi chiude la bocca con la sua, mi si incolla di nuovo addosso. Le mani incontrano lembi di stoffa svolazzante. Ha la camicetta aperta, e i suoi seni si schiacciano morbidamente contro il mio cuore agitato. Sento un sapore aspro e verde, come quando da bambino succhiavo le foglie d'erba e le masticavo fino a farle diventare bianche. Ricambio il bacio e la abbraccio, e il cazzo mi risorge violentemente nelle mutande. Le conto le costole, mentre la sua lingua mi lavora diligentemente la bocca, mi accarezza i denti, le labbra, mi scopa piano, pianissimo. La mano mi scende lungo il suo fianco, e ci metto un po' ad accorgermi che fra schiena ed anca non c'è stacco di stoffa, solo pelle, carne tiepida e vagamente umida, Dio, Sant'Anna e gli angeli del paradiso, è nuda, la prima donna nuda della mia vita, e realizzarlo mi taglia, letteralmente, le gambe. Lascio scivolare le dita fino alla curva del suo sedere, lei mi sospira in bocca, e divarica le cosce. La mano mi scorre piano fra le sue natiche soffici, incontra una striscia di pelle bollente e più umida, scendo ancora, il caprifoglio mi infila dita di foglie nel collo, e il mio dito segue il piccolo avvallamento, carne ripiegata e poi, più liscio, un cuscinetto sodo, fra le sue cosce. Lei smette, di botto, di baciarmi, scuote la testa, la tira indietro, si sistema sulle gambe, siamo vicinissimi ma staccati, la tocco ormai solo lì, dov'è più calda, segreta, è un attimo, spingo col dito. Un suono come di fusa, un sospiro trattenuto le sorge dalla gola, il mio dito si inoltra, altre pieghe, bagnate, sono dentro di lei, che mi si spinge contro, la cerco con l'altra mano, ventre piatto, pube, liscio, caldo, altra carne gonfia contro il palmo. La tocco, dentro e fuori, la sua figa è così bella intorno al mio dito, incontro una soglia elastica, più stretta, e poi mi immergo nel caldo, lei sembra un po' strozzarsi col respiro, mi cola sulle dita, il polso mi fa male, ma non importa, tocco e spingo e il sangue mi rimbomba nelle orecchie e contro la cerniera dei calzoni, e finalmente la sento contrarsi e godere, trattenendo il fiato, trattenendomi dentro in una stretta lieve e appiccicosa. Silenzio. Con la mano mi prende il polso, sempre senza parlare. La sua stretta è dura, e unghie che non ricordavo mi graffiano la pelle. Vorrei protestare, ma lei si infila la mia mano in bocca, e mi succhia via il suo sapore, e poi sparisce. Letteralmente. Venti secondi fa stavo dentro di lei e ora neanche vedo più la sua ombra vaga, la sua sagoma ritagliata in un buio più scuro di quello verde e caldo che mi circonda. Mi guardo intorno, strizzando gli occhi, confuso. Rumore di forglie smosse, indietreggio, inciampo, chiamo, sbatto di nuovo le gambe contro il muretto e la testa contro la ringhiera. Mi appoggio al muretto. Ho quasi paura. Qualcosa mi risale la gamba, strisciando. Urlo. Dal buio, zona caviglie, lei ride. "Lella, porcaputtana, la smetti di farmi scherzi?" Non capisco, che ha fatto, si è sdraiata in terra, nuda com'è, in mezzo all'erba e alle foglie marce? E' matta, 'sta donna? Ma dita mi risalgono le cosce, mentre lei continua a ridere, sommessa, e la sua sagoma risorge dal buio, fra le mie gambe. Le affondo le dita nei capelli arruffati, odorano di erba pestata, le cerco la bocca, la sua pelle scotta e sa, vagamente, di terra, la sua lingua mi percorre le labbra, scende lungo il mento, la gola, morde, succhia, piano. Mi sento alzare la maglietta, il tocco della sua bocca intorno all'ombelico, seguo ad occhi chiusi la sua lingua inerpicarsi sul mio ventre, abbracciarmi i capezzoli, li succhia, il cazzo è di nuovo pronto e duro come non è mai stato. Lei me lo stuzzica sopra i jeans, piccoli pizzichi fra pollice e indice, pressioni con il palmo aperto (dove l'ha imparata, questa roba?), mentre la sua lingua si infila sotto la cintura, mi inzuppa di saliva l'elastico dei boxer, gioca fra i miei peli. E, ogni tanto, ridacchia, ancora, un riso basso, di gola, che mi vibra contro la pancia. Le sue mani mi afferrano la cerniera, mi apre i jeans, le sue labbra bollenti e umide contro la stoffa delle mutande, il fiato caldo che si infila sotto, sulla pelle, madonna, madonnina, adesso me lo prende in bocca. Un secondo, lunghissimo, di niente. Lampi rossi dietro le mie palpebre chiuse strette, e poi la sua bocca intorno al mio cazzo, prima leggermente, solo la punta che le scivola fra le labbra fradice, la sua lingua che lo spinge fuori, e poi lo avvolge, lentissima. Mi appoggio indietro, la nuca contro le sbarre fredde mi dà un brivido uguale e opposto alla sua bocca bollente che si chiude piano intorno alla mia carne gonfia, un millimetro alla volta. Dentro, la sua bocca è morbida, la sua lingua mi guizza lungo l'asta, è bello, bellissimo, ma mai quanto sentirla stringere, risucchiarmi dentro, ha ormai tutto il mio cazzo in bocca, lo sento premere in fondo, le sue unghie mi si conficcano nella schiena, lei succhia, senza smettere, spalanco gli occhi senza fiato sul buio denso che mi schiaccia la faccia, rumori liquidi e fruscìo delle mie gambe nell'erba, il suo corpo sa di prato e di sudore, lei succhia, senza smettere, ma quando lo prende il fiato, santa madonna? E proprio mentre sto per goderle in bocca lei mi lascia, mi si avvolge addosso come una liana, sale sul muretto dove sto seduto, si riabbassa sul mio cazzo, le sono dentro, adesso, la faccia dentro i suoi capelli lunghi, che mi sbattono contro le guance, lei mi preme contro il bacino, col mio cazzo infilato fino in fondo, piccoli movimenti della sua carne intorno alla mia, sto per esplodere. Oggesù, questo non ha niente a che vedere con le seghe sotto alle coperte, la sua figa è viva, mi accoglie e mi massaggia, le sbarre e le sue unghie mi segano la schiena, odore di ruggine e di sangue e mentre lei mi ringhia sottovoce in un orecchio godo dentro a lei che gode e ride, ancora. Mi scivola via di dosso, resto fermo. Il tempo di riprendere fiato e di calmarmi un po' e mi accorgo che non la vedo più, di nuovo. Mi rivesto di corsa, sentendomi un po' scemo. "Lella? Basta con gli scherzi, dài, dove sei?" "Sono qui, sono, deficiente, cosa aspetti a scavalcare?" Oh cribbio, è già dall'altra parte, ma come ha fatto a fare così in fretta? In qualche modo mi arrampico, scavalco, lei è appoggiata all'inferriata, le braccia incrociate sul petto. Ha l'aria scarmigliata, qualche sbaffo di terra sui calzoni. Sono perplesso. Basito e beato, e anche un po' stranito di quello che mi è, ci è capitato, ma più che altro perplesso. Francamente, non capisco come ha fatto a rivestirsi e scavalcare l'inferriata così velocemente, ma soprattutto non capisco perché adesso, dopo tutto quello che è successo, ha quell'aria così sovranamente scazzata. Le sorrido e cerco di abbracciarla, ma lei mi scosta. Sbuffa. "E muoviti, che se mia madre scopre che sono ancora fuori mi ammazza!" Mi tira per il braccio, e non apre bocca per tutto il tragitto. Mentre cammino cerco di riflettere: mica ho fatto qualcosa che l'ha offesa? Ma cosa, che ha fatto tutto lei, roba da vera zoccola tra l'altro, che mi sa che c'aveva ragione il Carlo a dire che più se la tirano e più al dunque sono bagasce. Ma però invece stai a vedere che a lei non è piaciuto, o forse si è pentita di quello che ha fatto e ha paura che la sputtani in giro o magari si vergogna e allora davvero le dovrei parlare, ma non so cosa dire, ed è stato tutto così strano e bello che però vorrei dirglielo, e insomma vado avanti così a botta e risposta nella testa fino a casa di lei che quando arriva si volta appena e appena mi saluta. Sipario. Più vista né sentita, da quella notte. Né cercata, a essere sincero. Il perché non lo so ancora adesso. O forse si. Quello che so di sicuro è che oggi, che ho visto gli operai e la ruspa dentro il giardino della villa, e l'inferriata stesa giù per terra, in un rovinìo di ruggine e mattoni, mi è preso uno strizzolone al cuore, come mi fosse morto un parente.
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